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Benessere e disturbi psicosomatici

Quante volte ci è capitato, in un momento di tensione, di sentire “un nodo in gola”? Ebbene, in tal modo ciò che sperimentiamo altro non è che la somatizzazione, ossia un collegamento diretto tra le nostre emozioni e il nostro corpo. La somatizzazione, in realtà, investe qualsiasi tipo di manifestazione somatica, così come qualsiasi nostro pensiero ed emozione avrà ripercussioni sul corpo.

La psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) e la ricerca sui rapporti tra mente e corpo, possono senz’altro fornire una nuova prospettiva di risanamento integrale dell’individuo, volto non soltanto all’eliminazione del sintomo, ma al raggiungimento di un equilibrio psicosomatico generale.

Diventa allora indispensabile adottare un punto di vista che prenda in considerazione sia il corpo sia la mente dei pazienti, valutandone di volta in volta disturbi e malattie in maniera più “personalizzata”.

La Psicologia del Benessere si basa teoricamente su questa relazione proprio in quanto concepisce l’uomo come un’unità, avvicinandosi a lui con una visione biopsicosociale. L’accento sull’esistenza di uno stretto rapporto psiche-corpo presuppone che le persone, che desiderino il miglioramento del proprio stato, inizino a porre l’attenzione sia alla salute fisica che a quella psichica.

Per fare in modo che ciò avvenga occorre sviluppare un’autopercezione, ossia una percezione della propria unità corporea; in tal modo l’individuo inizierà ad “ascoltare” il suo organismo biologico, riconoscendo tutti i segnali che arrivano dal proprio corpo, i suoi limiti, i suoi bisogni, ciò che causa dolore o piacere.

Purtroppo, spesso, il ritmo frenetico della quotidianità ci fa dimenticare di “ascoltarci”, per cui può capitare di mangiare senza fame, non riposare quando si è stanchi, ignorare il dolore che potrebbe avvertire che qualcosa non vada, finendo con il perdere il controllo.

E’ molto importante, quindi, riprendere la comunicazione con noi stessi, rispettando il più possibile i ritmi e le necessità del nostro corpo, acquistando, così, un’effettiva autoconsapevolezza.

Concludendo vorrei, dunque, sottolineare l’importanza del mantenimento di una qualità di vita globale, particolarmente rilevante nel raggiungimento dello stato di benessere; i concetti circa la connessione psiche-soma dovrebbero riflettersi nella vita di ciascuno di noi, come un invito allo sviluppo di un maggiore senso di integralità.

A questo scopo la nostra attenzione deve rivolgersi sia agli aspetti biologici: cioè alimentarsi adeguatamente, evitare il fumo, praticare un’attività fisica, mettersi in contatto con i propri ritmi interni, sia a quelli psichici: non preoccuparsi eccessivamente, evitare i piccoli dissapori quotidiani, coltivare sani rapporti sociali, allontanarsi dalle situazioni spiacevoli, cercare di risolvere pacificamente i conflitti interpersonali attraverso il dialogo, cercare di superare il rancore.

 

Stress e sviluppo cerebrale nei bambini

Fino agli anni ‘80 molti studiosi ritenevano che la struttura del cervello fosse geneticamente determinata e già completa al momento della nascita del bambino. Non si teneva in debito conto non solo del ruolo dell’esperienza sulle strutture cerebrali in via di sviluppo, ma anche del ruolo attivo del bambino sul suo stesso sviluppo cerebrale tramite l’interazione con l’ambiente (Shore, 1997).

Una serie di ricerche effettuate su animali e l’utilizzo di nuove tecniche, non invasive, per studiare lo sviluppo cerebrale umano hanno fornito risultati sorprendenti.

In realtà alla nascita i bambini possiedono quasi tutti i neuroni, più di cento bilioni (National Cleringhouse on Child Abuse and Neglected Information, 2001).

Nel corso dello sviluppo fetale i neuroni che si sono formati migrano per dare vita alle varie regioni del cervello, creando così una struttura cerebrale di base. Ma lo sviluppo del cervello si completerà nel corso dei primi anni di vita. Negli anni successivi, fino alla morte, il cervello sarà in continua evoluzione, ma i cambiamenti non saranno di tale entità e drammaticità quanto quelli che avvengono nei primi anni dopo la nascita.

Le prime aree del cervello a raggiungere il completo sviluppo sono il tronco cerebrale e  il mesencefalo; esse regolano le funzioni corporee essenziali alla sopravvivenza (respirazione, digestione, escrezione, termoregolazione), le cosiddette funzioni autonome. Le aree che si sviluppano per ultime sono il sistema limbico, in cui ha luogo la regolazione emozionale, e la corteccia cerebrale, che permette il pensiero astratto

Man mano che il cervello si sviluppa, diventa più grande e con una maggior densità neuronale. Il cervello di un bambino di tre anni ha raggiunto quasi il 90% delle dimensioni che avrà nella piena maturità (Perry, 2000). La crescita di ogni regione del cervello dipende in larga parte dalla stimolazione che riceve e quindi dalla possibilità di creare nuove “sinapsi”, cioè nuove connessioni tra i neuroni. Sono queste ultime l’elemento cardine dello sviluppo cerebrale. Alla nascita il bambino possiede quasi tutti i neuroni, ma non sono formati che pochi collegamenti tra di essi, solo quelli essenziali alla mera sopravvivenza fisica. Il numero e il tipo delle connessioni sinaptiche che si formeranno in seguito dipende unicamente dall’esperienza.

All’età di tre anni, nel cervello del bambino si sono formate ormai circa 1000 trilioni di sinapsi, che sono molte di più di quelle che gli serviranno. Alcune di esse si rafforzeranno e rimarranno intatte, altre andranno perse. Una volta giunto all’adolescenza il bambino avrà perso circa la metà di queste sinapsi, nel corso della sua vita ne aggiungerà relativamente poche rispetto a questi 500 trilioni formatisi fin’ora  (Shore, 1997).

La plasticità del cervello del bambino è, in qualche modo, un ‘arma a doppio taglio: da un lato offre la possibilità all’organismo in crescita di adattarsi nel migliore dei modi all’ambiente in cui si sviluppa, dall’altro fa sì che condizioni svantaggiose nell’ambiente in cui il bambino trascorre i primi anni di vita possano avere conseguenze permanenti sul suo sviluppo cerebrale. Il modo in cui il cervello si svilupperà determinerà le capacità cognitive, affettive e sociali, nonché sulla predisposizione ad ammalarsi fisicamente o psichicamente, della persona.

Brevi periodi di stress moderato, prevedibile, non sono affatto negativi, anzi preparano i bambini ad gestire le inevitabili frustrazioni e stress della vita adulta. Diverso è quando il bambino è sottoposto a stress gravi e ripetuti, quali situazioni di maltrattamento o trascuratezza

Lo stress cronico sensibilizza delle connessioni neurali e fa sì che le regioni del cervello coinvolte nelle risposte di ansia e di paura siano iper-sviluppate; portando spesso ad un’ ipo-sviluppo di altre connessioni neurali e altre regioni cerebrali (Shore, 1997). L’attivazione cronica di quelle parti del cervello coinvolte nella reazione di paura (come l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene), può condurre ad un sottosviluppo di altre parti del cervello quali l’ippocampo, coinvolte nella cognizione  e nella memoria (Perry, 2000). Esperienze traumatiche sperimentate nella prima infanzia possono interferire con lo sviluppo dei sistemi limbico e sottocorticale, il che può portare a gravi stati di ansia, depressione, nonché all’incapacità di stabilire un legame di attaccamento con altre persone. Inoltre un’attivazione cronica dei circuiti neurali coinvolti nella reazione di paura può creare una “memoria” permanente che modellerà la modalità di percezione e di reazione dei bambini nei confronti dell’ambiente. Si crea uno stato di iper-attivazione: il bambino è iper-vigilante, particolarmente attento e sensibile a quei segnali dell’ambiente che hanno un significato potenzialmente minaccioso. Inoltre, paradossalmente, il bambino potrà fare in modo da suscitare un atteggiamento minaccioso in coloro che gli sono vicini, in modo da poter affrontare una reazione a lui nota, prevedibile, dal momento che le connessioni cerebrali che si sono create gli rendono di fatto impossibile reagire positivamente ad un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto (Perry, 1997). Probabilmente è per questo motivo che bambini abusati tentano di sedurre gli adulti con cui vengono a contatto.

Drammatici sono gli effetti evidenti di una trascuratezza grave sullo sviluppo cerebrale: dalla TAC si nota che il cervello dei bambini gravemente trascurati è significativamente più piccolo rispetto alla media e mostra uno sviluppo anomalo della neocorteccia, conseguenti alla carenza di stimolazione (National Cleringhuse on Child Abuse and Neglected Information, 2001. Ciò porta ad un ritardo mentale nonché ad un’incapacità di rapportarsi in maniera soddisfacente alle altre persone.

Si è visto, infine, che maltrattamenti e trascuratezza nella prima infanzia possono portare a  diversi problemi di salute mentale in età adulta:

  • Una ridotta crescita dell’emisfero sinistro può incrementare il rischio di depressione (Teicher, 2000)
  • La facile irritabilità del sistema limbico può predisporre ad attacchi di panico o Disturbo Post-traumatico da Stress (Teicher, 2000)
  • La crescita ridotta dell’ippocampo e anormalità a livello del sistema limbico possono aumentare i rischi di Disturbi Dissociativi e deficit della memoria (Teicher, 2000)
  • Un’indebolimento delle connessioni tra i due emisferi cerebrali è risultato associato a sintomi del disturbo da Deficit dell’Attenzione/iperattività (Teicher, 2000)
  • Bambini gravemente deprivati che sono stati privati di stimolazioni sensoriali comprendenti il contatto, il movimento e i suoni sono a rischio del Disturbo dell’Integrazione Sensoriale (Parent Network for the Post-Istituzionalized Children, 1999)

Questi dati, certamente drammatici in quanto si riferiscono a situazioni di stress grave e ripetuto per i bambini, sottolineano l’importanza e la responsabilità di fornire un’ambiente adeguatemente stimolante e relativamente prevedibile per i nostri bambini, a casa, a scuola e nei vari contesti da essi frequentati. Bambini che possono contare su un ambiente che promuova un sano ed equilibrato sviluppo cerebrale, diverranno adulti capaci di adattarsi in maniera ‘sana’ alle diverse circostanze della vita, di stabilire dei legami soddisfacenti, di provare e promuovere benessere psicologico e fisico.

Bibliografia

National Cleringhouse on Child Abuse and Neglected Information (2001): Understanding the effects of maltreatment on early brain development. http://nccanch.acf.hhs.gov/pubs/focus/earlybrain.cfm

Parent Network for the Post-Istituzionalized Children (Spring 1999): overview of the post-istituzionalized child. The post, 1. www.pnpic.org/news2.htm.

Perry BD (1997): Incubated in terror: Neurodevelopmental factors in the ‘cicle of violence’. http://www.childtrauma.org/CTAMATERIALS/Vio_incubated.asp

Perry BD (2000) : Traumatized children : how childhood trauma influences brain development. http://www.childtrauma.org/CTAMATERIALS/Vio_child.asp.

Shore R. (1997): Rethinking the brain. New York: Families and the Work Institute.

Teicher MD (2000): Wounds that time wont’heal: the neurobiology of chikd abuse. Cerebrum: The Dana Forum on brain science, 2(4), 50-67.

 

Lo stress fa sempre male

Chi di noi non utilizza il termine “stress” riferendosi ad eventi particolari della propria vita o non ha mai avvertito la sensazione di essere “stressato? Ci siamo mai chiesti da dove derivi questa parola?

E’ interessante sapere che il termine “stress” è stato utilizzato per la prima volta in ambito ingegneristico per indicare la “pressione”, lo “sforzo” a cui viene sottoposto un ponte al momento del transito del veicolo. Credo che il significato originario del termine ben si adatti a come ci sentiamo quando siamo “stressati”: ci sentiamo “sotto pressione”, sentiamo di stare sopportando dei pesi superiori alle nostre forze.

Ma lo “stress” è uguale per tutti? Gli stessi eventi fanno sentire tutti “sotto pressione” allo stesso modo? Possiamo fare qualcosa per reggere meglio l’impatto con gli eventi che ci fanno sentire lo ‘sforzo’?

Tutti noi possiamo constatare che persone apparentemente molto stressate non sembrano soffrire più di tanto e si mantengono in buona salute, altre invece di fronte ad eventi apparentemente banali sperimentano un forte disagio e spesso si ammalano fisicamente. Con ciò non voglio intendere che esistano eventi oggettivamente importanti ed altri oggettivamente banali. La banalità o l’importanza dell’evento viene definita dalla persona stessa che sta sperimentando quel determinato evento: un trasloco, un cambiamento lavorativo, un figlio che si sposa possono essere vissuti in modi completamente diversi da due diverse persone. Ma, che cosa rende alcune persone forti nei confronti di eventi stressanti e altre invece vulnerabili ad essi?

Le capacità di far fronte agli eventi di vita senza esserne travolti sono state definite in vari modi. All’inizio delle ricerche in questo ambito tali capacità sono state definite “risorse di resistenza” o “buffer” (tampone), nel senso di una situazione in grado di neutralizzare gli effetti dell’altra. Quando si parla di risorse di resistenza si pensa fondamentalmente a due tipi di risorse: alcune interne alle persone (quindi caratteristiche della persona che affronta l’evento), altre esterne, tipiche dell’ambiente sociale che la persona frequenta.

Una risorsa interna molto importante è la Hardiness (che in italiano potrebbe tradursi come “capacità di resistenza”). Secondo la dott.ssa Kobasa, che ha teorizzato questo costrutto, avere Hardiness significa:

1) Impegnarsi pienamente nelle varie dimensioni della vita: lavoro, famiglia, rapporti interpersonali in genere e istituzioni sociali. Avere uno scopo nella vita, essere capaci di individuare delle priorità.

2) Assumersi la responsabilità degli eventi della nostra vita; percepire quanto ci accade come conseguenza delle nostre decisioni e delle nostre azioni; sentirci fiduciosi della nostra capacità di influenzare gli eventi a nostro vantaggio.

3) Vedere gli eventi stressanti come possibilità per lo sviluppo personale piuttosto che come minacce alla nostra sicurezza; ricercare continuamente esperienze nuove e stimolanti, essere ben preparati a rispondere all’inatteso.

Un’altra risorsa interna che può aiutarci a gestire lo stress è la “complessità del sé”, proposta dalla dott.ssa Linville. La dott.ssa Linville intende, con questo termine, la capacità di una persona di identificarsi nei diversi aspetti della propria vita. Se ad esempio una donna si identifica solo nel ruolo di casalinga e a causa di un infortunio non può occuparsi della casa per un periodo, quest’infortunio costituirà per lei un evento catastrofico. Se invece la stessa donna si percepisse anche come appassionata di libri gialli, giocatrice di poker, studiosa, ecc., vivrebbe l’infortunio in tutt’altro modo; paradossalmente potrebbe anche essere contenta del riposo forzato che le permetterebbe di occuparsi di cose a cui di solito non riesce a dedicare tanto tempo.

Tra le risorse esterne vi è il cosiddetto “sostegno sociale”, cioè la rete di persone sulle quali possiamo contare in caso di difficoltà. Frequentare dei gruppi, sentire di appartenere ad una comunità, avere un partner, coltivare amicizie, mantenere rapporti con i parenti sicuramente ci aiuta ad affrontare gli eventi difficili della nostra vita.

Lo ‘stress’ è inevitabile – i cambiamenti e gli imprevisti fanno parte della vita – ma noi possiamo fare qualcosa per far sì che ciò non influisca negativamente sul nostro benessere psicofisico. Impariamo da chi affronta lo stress senza ammalarsi:

  • Coinvolgiamoci nelle cose che facciamo, ‘appassioniamoci’: una passione può dare un senso alla nostra vita, ‘salvarci’ in situazioni di stress importanti.
  • Viviamo la vita come una sfida: i cosiddetti eventi stressanti possono costituire delle occasioni per cambiare in meglio la nostra vita. Quante volte, col senno di poi, ci rendiamo conto che se non fossero accaduti degli eventi che al momento ci hanno dato grossa sofferenza non avremmo mai raggiunto quei risultati che attualmente ci appaiono così importanti e significativi.
  • Ricordiamoci che non siamo mai realmente in balia degli eventi (se non in casi eccezionali), possiamo sempre fare qualcosa per modificarli in nostro favore; magari con fatica, ma possiamo.
  • Non isoliamoci, cerchiamo di coltivare relazioni significative; apprezziamo le persone che ci spingono a ‘metterci in discussione’: in situazioni stressanti saranno queste persone ad aiutarci a comprendere le nostre eventuali responsabilità nel verificarsi dell’evento e ad aiutarci a trovare un senso a quanto accaduto

 

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