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Graffiti e tag: forma d’arte o disagio giovanile?

Volendo analizzare i retroscena psicologici del fenomeno in crescita dei writers, bisogna fare una precisazione tra graffiti e tag: i primi sono una forma di espressione artistica per mezzo immagini più o meno complesse, mentre le seconde sono segni o firme velocemente eseguiti con un colpo di spray.

Ogni ragazza o ragazzo che entra a far parte del popolo degli disegnatori-scrittori assume un nuovo nome proprio e un suo alfabeto che lo distinguono dagli altri. Omologazione e differenziazione sono processi alla base dell’ inclusione in un gruppo di writers (detto crew): si rinasce con un altro nome, con peculiarità che vengono trasmesse sui muri, metro, treni ecc… La parete diviene lo specchio della propria identità in divenire, del fluire dei propri pensieri, un mezzo che include e racconta.

Ma è solo questo?

Non sempre chi scrive sui muri è un writers, non tutti ne fanno parte. Far parte di una crew non è così facile e scontato. Bisogna avere delle caratteristiche coerenti con quelle degli altri membri del gruppo; particolarità non solo fisiche, ma anche culturali e sociali.

Chi appone le firme su muri appena dipinti, su negozi o palazzidà segno di inciviltà e spesso non merita la stima dei veri artisti dell’aerosol, ovvero coloro che disegnano i muri con le bombolette . In tal caso la scritta è espressione di vacuità, di qualcuno che non ha niente di meglio da fare e, se ciò accade ad un giovane, rappresenta un segnale molto triste di un disagio personale che, se si estende, può diventare disagio sociale.

Una forma di comunicazione personale che rappresenta un gesto di autoaffermazione e trasgressione nello stesso tempo.

Sulla valenza comunicativa dei graffiti, e degli slogan che spesso li accompagnano molti semiotici e studiosi di comunicazione sono d’accordo ma allora dove si collocano i tag? 

Lasciare la propria firma è un modo per dire io esisto, sono passato di qui e ho lasciato un segno che mi farà ricordare e riconoscere con la mia nuova identità. Una inequivocabile richiesta d’attenzione in una società troppo affollata e distratta.

A questo fenomeno si aggiungono i “poeti dei muri”, cioè coloro che scrivono frasi d’amore sotto le case delle innamorate o nei luoghi comuni per la loro “banda”.

Questo tipo di espressione scaturisce probabilmente da una dirompente voglia di gridare al mondo i propri sentimenti, per scaricare le proprie sensazioni e paure o per vincere la timidezza di dire le stesse cose faccia a faccia.

Un’ urgenza comunicativa, spesso intima e focalizzata su una sola persona, che non può e non vuole aspettare lettera, telefonata, e.mail, sms, mms – nient’altro.

Le “voci” che “gridano” sui muri possono nascere da un’esigenza estetica, oppure dal mero bisogno psicologico di mettersi in mostra, di delimitare il territorio o di far vedere al mondo che “io ci sono e posso”.

La sostanziale differenza sta nel fine: i “veri “writers non sono teppisti e cercano l’abbellimento estetico di zone degradate , o la comunicazione di messaggi di protesta; i “poeti dei muri” non si curano della bellezza del prodotto, perché, la loro è solo una forma di comunicazione fine a se stessa; l’espressione di un bisogno di lasciare traccia di se.

Questo, sottolinea l’aspetto egocentrico dello “scarabocchiare” sui muri.

Si può scrivere sui muri per tanti motivi diversi: per alleviare tensioni, per raccontarsi , per sfidare l’illegalità. Non c’è dubbio che nei tag e nelle scritte sulle pareti ci sia un segnale di disagio e difficoltà nell’espressione attraverso mezzi canonici di comunicazione.

Nelle scritte scaturisce la necessità interiore di raccontarsi, di manifestarsi, di esteriorizzare la storia che scorre lungo i fiumi dell’interiorità.

Attraverso spray e bombolette si esteriorizzano stati d’animo come la rabbia, la confusione, la trasgressione, ma anche la felicità e l’amore (corrisposto o no).

Gli esperti la chiamano comunicazione povere urbana. Povera perché di limitata qualità e contenuti: le frasi perdono il valore di ribellione che potevano avere in tempi di protesta.

Non sono più “pasquinate” , ne slogan che hanno un significato connotato politicamente e/o socialmente, sono solo sfoghi impulsivi e spesso incomprensibili.

Eppure qualcosa queste scritte ci dicono: ci segnalano la volontà dell’autore di raccontare parte dei propri vissuti, di lasciare che sia una superficie a mostrare i suoi sentimenti.

Forse la società è troppo presa dal suo veloce mutare per accorgersi dei singoli e di loro stati d’animo. I ragazzi sentono il bisogno di esprimersi, farsi notare, sfogare le proprie paure e insicurezze. Vogliono poter far parte di una comunità, di un gruppo che li protegge e gli dà la possibilità di sentirsi qualcun altro: un nuovo nome è come una nuova identità. Un’identità più matura, di uomo e non ragazzino.

Per di più nasce il bisogno di emulare chi già scrive sui muri per sentirsi più importanti e mostrarsi al mondo diversi: non più bambini.

La transizione dall’adolescenza all’età adulta è lunga e difficile e spesso i ragazzi hanno l’impressione che nessuno li ascolti, e li capisca.

Nel periodo dello sviluppo della propria identità si inizia a sentire l’esigenza di riflettere sull’immagine di sé, e a volerla comunicare agli altri.

Tanti sono gli ambiti in cui questa maturazione avviene: vi è l’ambito familiare innanzitutto; quello scolastico e del gruppo spontaneo; le strutture per adolescenti e non. Tutte queste occasioni di socializzazione e crescita individuale hanno però un elemento in comune, un elemento fondamentale per lo sviluppo della persona: il gruppo.

In questo periodo, le figure genitoriali, e in genere quelle adulte, non bastano più, e si ha bisogno di termini di paragone simili al proprio. Inizia così il desiderio di essere accettati (bisogno di affiliazione) e di conformarsi alla propria comitiva di riferimento (bisogno di appartenenza).

E’proprio durante l’adolescenza che i coetanei diventano il più importante oggetto di confronto sociale e rappresentano un riferimento normativo e comparativo per valutare in modo autonomo, al di fuori del controllo degli adulti, il proprio comportamento e le proprie scelte, quindi costituiscono un supporto sociale per affrontare i problemi connessi alla crescita.

Nel periodo adolescenziale è l’amicizia, e il consenso dei coetanei, ad essere fondamentale; normale è quindi la ricerca da parte dell’adolescente di una crew acui appartenere e da cui sentirsi protetto e spalleggiato.

Il gruppo dei pari è come un “laboratorio di sperimentazione sociale”, è un vero e proprio strumento di sostegno affettivo ed emotivo, che è in grado di incidere nella costruzione della reputazione e visibilità sociale da parte dell’adolescente. E’ tale l’esigenza di una valutazione in positivo, da parte del gruppo di coetanei a cui si vuole appartenere, che spesso la preoccupazione fondamentale da parte dell’adolescente si trasforma, dall’ansia di scoprire chi si è, a quella di scoprire chi si deve essere, per far parte della ristretta cerchia di “eletti” del suddetto gruppo.

L’imitazione nasce da questa necessità di essere parte di un nucleo in cui sentirsi a proprio agio: liberi di esprimersi senza essere giudicati.

Il gruppo è un microcosmo dove “fare le prove generali” per sperimentare la propria indipendenza dagli adulti, e capire chi si è.In questo processo gli adulti hanno un ruolo molto delicato: devono riuscire a seguire la crescita dei propri figli rendendosi disponibili al dialogo , alla comunicazione bidirezionale ealla pari.

Le scritte sui muri, se non sono concepite come forme artistiche, possono essere espressione di un disagio, un vissuto troppo forte per essere fatto tacere. Sarebbe meglio poterne parlare invece di dover comunicarlo su una parete.

 

Gestire la rabbia

Quando siamo arrabbiati avvertiamo chiaramente un disagio e una tensione crescente che sentiamo di dover “scaricare” al più presto per ritrovare uno stato di benessere. In quanto insita nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata nei fondamentali meccanismi della sopravvivenza; essa, come il dolore, turba il nostro stato di equilibrio per avvisarci di qualche minaccia e per permetterci di attaccare la fonte di tale minaccia.

Tuttavia, anche se a volte può essere indispensabile per sopravvivere, nella maggior parte dei casi, cedere ai nostri impulsi ostili, “scaricare” su chi ci sta di fronte la tensione del momento, non è affatto utile né tantomeno ha l’effetto di produrre benessere; anzi, a lungo andare, l’espressione frequente della rabbia può portare alla distruzione dei rapporti.

Poiché il più delle volte la rabbia nasce da incomprensioni o da esagerazioni, è poco probabile che con scoppi di collera si possano risolvere i problemi: al contrario rischiamo di aggravarli. Inoltre, nel caso di rapporti affettivi importanti, le ferite che si infliggono in momenti di rabbia continueranno a far male per molto tempo e tenderanno a creare un circolo vizioso di offese e ripicche che finiranno per deteriorare il rapporto.

E’ importante poter manifestare il fastidio e la sofferenza che un determinato comportamento ha provocato in noi, ma è fondamentale riuscire a farlo nel modo più adeguato affinché tale manifestazione possa accrescere il nostro benessere.

Spesso la rabbia nasce da fonti interiori.

Allora, come prima cosa, cerchiamo di capire davvero perché siamo arrabbiati. Perché un’automobile che ci impedisce di uscire dal parcheggio ci fa diventare folli di rabbia? Certamente è una cosa che infastidisce ma, a meno che non stiamo vivendo una situazione di emergenza, non costituisce certo una minaccia alla nostra sopravvivenza. Ad ognuno possono venire in mente episodi in cui ci si è sentiti “arrabbiatissimi” senza che ci fosse nessuna minaccia effettiva (qualche minuto di ritardo, un saluto negato, etc.).

In realtà spesso la rabbia viene scatenata dalle nostre interpretazioni delle azioni dell’altro, dai significati simbolici che vi attribuiamo. Ad es. posso cominciare a pensare che il proprietario dell’auto che mi ostacola non ha alcun rispetto per me, non ha pensato affatto al fastidio che mi poteva arrecare, che è un prepotente, ecc.

Questa catena di pensieri, che spesso si susseguono in modo automatico e inconsapevole, non fa altro che far aumentare la mia rabbia, per cui quando finalmente arriva il proprietario dell’automobile io sono pronto ad entrare in colluttazione con lui, con tutte le conseguenze negative del caso (tra cui perdere ancora più tempo).

Perciò, quando cominciamo a sentirci in collera, chiediamoci:

La mia rabbia è obiettivamente giustificata?

E’ adeguata a alla situazione che sto vivendo? Può dipendere da particolari significati che sto attribuendo al comportamento di chi mi sta di fronte?

Può dipendere dai pensieri che si stanno susseguendo nella mia mente?

Se mi sto arrabbiando con una persona importante per me, è possibile che mi dia una certa soddisfazione trovare qualche motivo per attaccarla (forse mi da un certo piacere metterla a disagio, ferirla o farla sentire in colpa)?

Una volta che ci siamo posti queste domande, e abbiamo cercato di darvi una risposta, possiamo effettivamente decidere se è il caso di manifestare o meno la nostra rabbia, e soprattutto in che modo manifestarla.

Nel caso avessimo deciso che è il caso di manifestare la nostra rabbia e abbiamo chiaro in mente come farlo, è importante valutare i costi e i benefici (a breve e a lungo termine) di questa nostra manifestazione.

Quindi, chiediamoci ancora:

Che cosa guadagnerò comportandomi in questo modo?

Che cosa potrò perdere?

Esistono dei mezzi migliori per ottenere ciò che desidero?

Spesso dopo esserci posti tutte queste domande la rabbia sarà svanita da sola e noi avremo trovato altre soluzioni per far valere le nostre ragioni, altre volte invece rimarremo convinti della giustezza dei nostri sentimenti e riusciremo ad esprimere la nostra rabbia nella maniera più adeguata ed efficace.

Cosa fare invece quando la rabbia da gestire non è la nostra, ma quella di chi ci sta di fronte?

Anche in questo caso possiamo decidere di fare diverse cose tenendo conto dei costi e dei benefici a breve e a lungo termine.

Alcuni dei metodi che possono essere utilizzati per disinnescare la rabbia dell’altro sono:

· Chiarire il problema. Spesso è istintivo reagire ad un atteggiamento rabbioso con il contrattacco, ma è poco probabile che ciò abbia una qualche utilità. Se riusciamo a mantenere la calma e capire quali possono essere state le cause della rabbia dell’altro, saremo senz’altro sulla buona strada.

· Calmare l’altro. Si può ridurre la rabbia dell’altra persona insistendo sul fatto che essa ci impedisce di vedere il problema e di aiutarlo a risolverlo. Il più forte non è chi fa la voce più grossa, ma chi riesce con la sua calma a dirigere la conversazione verso la definizione e la soluzione dei problemi. · Concentrarsi sulla soluzione del problema. Mettiamo immediatamente a fuoco il problema in atto. Mantenendo la calma aiuteremo chi ci sta di fronte a riconoscere l’inopportunità dei suoi scoppi di rabbia. · Distrarre l’attenzione. Molte persone al culmine di un accesso d’ira si possono calmare se spostano l’attenzione altrove. Ad es. si può cambiare argomento, usare con giudizio l’umorismo, ecc.

· Programmare sedute di sfogo.

Questa tecnica è utile per persone che si trovano a trascorrere molto tempo insieme e che non riescono comunque a parlare senza arrabbiarsi. Si tratta di programmare delle sedute in cui ognuno dei due si senta libero di esprimere la propria ostilità.

Ecco alcuni passi pratici da compiere nelle sedute di sfogo:

1. Stabilire espressamente il momento e il luogo in cui potersi esprimere, facendo in modo che nessuno possa ascoltare casualmente quello che diciamo.

2. Stabilire dei limiti di tempo per ogni seduta. La durata ottimale dovrebbe essere tra i quindici e i venti minuti.

3. Non interrompere la persona che parla.

4. Prendere la parola a turno ma decidere in precedenza la durata degli interventi (non più di quattro o cinque minuti)

5. Prevedere delle pause, da effettuare su richiesta del partner che ne sente il bisogno.

Ovviamente, anche se nelle sedute di sfogo possiamo permetterci di “sfogare” la nostra rabbia, è necessario porsi comunque dei limiti. Va bandita qualsiasi forma di attacco fisico, e anche gli attacchi verbali non devono sfuggire completamente al controllo. Se uno dei partner si spinge troppo oltre, l’altro deve farglielo notare e sostenere con fermezza che il limite non va superato. ·

Allontanarsi. Nel caso in cui ci rendessimo conto di non riuscire ad arginare la rabbia dell’altro e di avere motivo di temere per la nostra incolumità, non esitiamo ad allontanarci.

A volte è sufficiente allontanarsi di poco (ad es, spostarsi in un’altra stanza), ma se ciò non bastasse mettiamo la massima distanza possibile tra noi e la persona arrabbiata (usciamo di casa, allontaniamoci con la nostra auto se la lite è con un altro automobilista).

Quello della gestione della rabbia è un problema fondamentale della nostra società. A fronte di minacce che sono il più delle volte “simboliche”, nel nostro organismo avvengono dei cambiamenti (aumento della tensione muscolare, della pressione arteriosa, del battito cardiaco) che ci predispongono ad una lotta di tipo fisico.

Il più delle volte, il tentativo costante di ‘reprimere’ queste sensazioni porta a malattie psicosomatiche; altre volte, l’incapacità di auto-controllarsi porta ad esiti drammatici.

E’ fondamentale, quindi, per ognuno di noi, riconoscere i segnali della propria rabbia e di quella altrui, interrogarsi sulle sue vere origini e impegnarsi consapevolmente ad utilizzare delle tecniche che ci consentano di gestirla nella maniera più adeguata

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